PROSE

Emile Cioran

“Al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime”. Partiamo da qui. Da questa vertiginosa sentenza, da questa asseverazione grondante d’infinito. La formula lui, Emile Cioran, in un libretto intitolato Lacrime e santi. Partiamo da qui perché con Cioran, nato in Romania nel 1911 e morto a Parigi nel 1995 – ma trattandosi di Cioran sarebbe forse meglio dire morto in Romania nel 1911 e probabilmente nato a Parigi nel 1995 – un punto vale l’altro. Della sua opera tutto o quasi è citabile, esaltabile, proiettabile come su uno schermo di fuoco, con il rischio di perdersi in un dedalo aforistico dei più sesquipedali e dei meno sistematici, di stordirsi, di sciogliersi nella musica corrosiva e dolcissima della sua prosa, di cui è stato detto – lui rumeno, anzi romeno come molti di quei grandi prediligevano farsi chiamare in omaggio alle proprie origini lontane, ed alcuni altri ricordiamone, evochiamone, frangiflutti nei marosi del Novecento, Mircea Eliade, Vintila Horia, Constantin Brancusi, Eugene Ionesco.. – che abbia incarnato il miglior francese, quello cartesiano, classico, terso e trasparente, quello dei grandi moralisti, levigato e prezioso come un cristallo di Boemia o un vetro di Murano. Un miracolo dunque. E d’altro canto non c’è vero scrittore, artista autentico, grazie al quale non se ne verifichi almeno uno di miracoli. Per questo suo essere una miniera, un giacimento aurifero senza fine né principio, al pari della vita vulcanico e proteiforme, è forse meno arduo scrivere come Cioran che scrivere di Cioran. Mi si perdonino il paradosso e la blasfemia. Si possono tentare delle definizioni, alcune sono già state coniate: angelo sterminatore o squartatore misericordioso, buon Esculapio del Sesto Arrondissement o Nietzsche dei Carpazi, giardiniere dell’Apocalisse o mistico refoulé, represso, come ebbe a scrivere Arnaldo Pini, grande e indimenticabile amico. Potremmo aggiungere un Adamo senza paradiso ma con la sua lancinante nostalgia, una tremante salma di eccelsi apoftegmi incoronata, un sopraffino forgiatore di saette e meraviglie che contempla il cielo sull’orlo di un abisso con il terrore di cadere nel cielo, un eterno innamorato di Dio non sai se più respinto o respingente, un Giobbe che ha perso tutto senza aver mai posseduto nulla, un principe clochard, un accattone dell’assoluto, un moderno sibarita d’ogni dolore come d’ogni incandescente ebbrezza o mai intravista beatitudine, un ubriaco cronico e stupendo di lucidità e di notti insonni, un esule ovunque, un appestato di incomparabile fascino, un eremita imprecante sulla soglia della demonicità, un crocifisso quotidiano, un genio che tutto divora, che tutto getta in pasto a se stesso per poi gettarsi in pasto ai cani, un maestro di bellezza, di scherno e di pietà, senza cattedra perché la sua cattedra è l’infinito, ma soprattutto un amico, tra i più veri e confortanti, per quanto strano possa sembrare a chi lo conosce e a chi – fosse pure uno soltanto – lo conoscerà dopo questo mio piccolo tributo di sangue. Come per quella ragazza giapponese, che persuasa ad uccidersi, scoprì in tempo utile le discettazioni di Cioran intorno al suicidio e anziché mettere in atto il suo – un giornalista direbbe – insano proposito, optò per scrivergli; così da una comune, innominabile ossessione, da una stessa devastata nicchia dell’anima nacque una bellissima corrispondenza epistolare. O per quell’altra, libanese, che rintanata in una Cantina di Beirut, sotto i bombardamenti, tra il fuoco, la polvere, l’arsura, sotto tutto il male del mondo, leggeve Cioran perché ne trovava “ tonico lo spirito e corroborante lo humour”. Anch’io al suo posto avrei forse fatto lo stesso, avrei letto Cioran, da lui mi sarei fatto accompagnare, la cosa migliore in una simile situazione, il più appropriato modo di passare il tempo ed eventualmente trapassare, secondo solo ad un altro, il più adatto in assoluto : pregare. Ed è questa l’ennesima prova di una toccante verità; la verità che l’arte, la bellezza non ingenerano mai bruttura, disperazione, morte. Mai, neanche quando sembrano irresistibilmente protendersi sul baratro, tentarlo, cedergli, affiggere il proprio eroico sguardo in fondo al suo indicibile. Al limite possono caderci loro, i martiri della bellezza, dentro il baratro. Sarà in quel caso un sacrificio d’amore, un olocausto consumato affinché qualcosa di più grande avvenga. Ma non la loro opera, quella no. Quella col baratro contende, fino alla vittoria. Solo la letteratura kitsch, la paccottiglia pornografica speziata di bestialità e infarcita di idiozia – il niente che strepita e deturpa – finisce nel baratro, anzi no, perché non è degna del baratro. A ben vedere non finisce affatto perché non è mai iniziata.
Cioran non ha mai potuto dimenticare il paradiso, obliare Dio, questo “cancro luminoso”, come lo chiama nel Sommario di decomposizione, e quindi non ha mai potuto vivere se non in questa dilaniante nostalgia dell’Altro e dell’alto. In sostanza non ha mai potuto vivere. E non è forse questo il miglior modo di vivere? La memoria del cielo gli scorreva nelle vene, gli albergava in petto. Come nessuno credeva in Dio, pensava a lui, con una specie di estenuato accanimento, di furia coatta. Ma in lui non aveva fiducia, non gli si abbandonava. In ogni sua pagina, in ogni suo sospiro introdotto nell’economia dell’intelletto, in ogni sua lacrima, in ogni sua mirabile sentenza, stanno inesaudita preghiera e inesaudita bestemmia, inno ed epicedio, espressi o virtuali. Mai la pace.
L’universo di Cioran è un luogo disertato dal Bene. In esso le orme degli dei fuggiti si confondono, sono occultate nella melma dei giorni e delle notti, nell’abominio del tempo in cui siamo gnosticamente caduti. Non un Dio, grande e misericordioso, ma un funesto demiurgo – è questo il memorabile titolo di un suo libro – deve avere atteso prima del primo uomo alla creazione del mondo; con esiti catastrofici. Un turpe logoteta del Supremo è incorso in abuso d’ufficio abortendo la materia e il cosmo. “Che l’esistenza sia stata viziata alla sorgente insieme agli elementi chi potrebbe esimersi dal supporlo? Colui che non sia stato indotto a considerare questa ipotesi, come minimo una volta al giorno, avrà vissuto da sonnambulo. È difficile, è impossibile credere che il dio buono, il “Padre” sia implicato nello scandalo della creazione. Tutto fa pensare che non vi abbia mai preso parte, che essa sia opera di un dio senza scrupoli, un dio tarato”. Eppure della creazione Cioran non manca di scorgere la bellezza, di intuire la gloria, a sprazzi balenante, tra atomi ed astri. Egli stesso – questo intimo di Pascal e Schopenauer, questo degno commensale di Giobbe e di Pirrone, di Epitteto e Chamfort, (e di Beckett commensale non ipotetico, data la loro bella amicizia, con l’autore di Aspettando Godot che affermava di sentirsi al sicuro tra le rovine del suo Demiurgo), di Baudelaire e Dostoevskij, e di una tra le più grandi poetesse di tutti i tempi, Emily Dickinson; questo riottoso discepolo dei sommi mistici d’Oriente e d’Occidente, questo adoratore di Bach, che proprio nel Cantor vedeva la più indefettibile prova dell’esistenza di Dio – contribuisce alla bellezza, è un fedele della bellezza e della gloria, aldilà di ogni caduta, di ogni refuso implacabilmente disvelato nella periclitante architettura dell’essere. Disvelato e messo in prosa; prosa divina qualche volta. Anacoreta a corto di deserti, transfuga del consorzio umano, santo misoneista e anche un po’ santo bevitore, asceta con un piede nell’inferno, è sempre lì sul punto di arrendersi, di cadere nelle braccia della verità: “Esaurite le mie riserve di negazione, e forse la negazione stessa, perché non uscire in strada a gridare a squarciagola che mi trovo sulla soglia della verità, dell’unica che valga? Ma quale sia, ancora non lo so; ne conosco solamente la gioia che la precede, la gioia e la follia e la paura.” Così nella “Tentazione d’esistere”.
Per chi lo ama avviene con Cioran un’alchimia fantastica, una corrispondenza magica, elettiva. Prodigio di passione e com-passione incline a verificarsi più per lui, per sua intercessione, che per quella forse di ogni altro scrittore. Leggere un suo libro equivale a stringergli la mano, scrutare quei suoi occhi di sconfinata intensità, adagiarsi con lui nella dura cripta di un pensiero terremotato e folgorante, sfasciare le abborracciate quinte dell’universo per uno sguardo, sterminante ed impossibile, oltre il velo di Maya. Cioran non è semplicemente uno scrittore, è una meravigliosa malattia. E noi uccideremo chiunque ci vorrà curare. Non abbiate paura ( lo dice anche il Papa, di lui almeno vi fiderete) della sofferenza e del dolore, non temete il precipizio. Per aspera ad astra. Leggete Cioran, ma non con il cervello, o non con il cervello solamente; non col vostro mezz’etto di ragione e i vostri venti grammi di cultura. Non così, perché ne sareste ostracizzati, presi a calci, irrisi.
Lleggetelo con l’anima se l’avete, con ciò che sempre e sopratutto adesso manca, attingete alle sue “riserve sostanziali d’assoluto”, per citare Squartamento. Cioran squarta per guarire, notomizza per la vita. Sua l’arte pietosa del cerusico, la cura più profonda d’anime. Presso i suoi libri un autentico ristoro. Non capiranno gli sciocchi, i ruminanti bipedi, i babbioni, i molti stomaci ed apparati genitali da tutto il resto avulsi, i tanti buchi umani con il niente dentro, ma non capiranno neppure – altra infinita armata, altra pugnacissima ancorché essenzialmente imbelle schiera o legione impiegatizia – gli intelligenti non illuminati, i razionalisti, i materialisti, gli statistici, i giuristi, gli economisti, i demografi, gli storici, i non pneumatici come scrive Ceronetti; e i politici e i pubblicisti e i giornalisti e gli stilisti, e così via.. tutti, a migliaia, a milioni, di ogni razza, di ogni sesso e di ogni età, tutti gli uomini seduti, tutti gli uomini inseriti, tutti gli uomini arrivati, burbanzosamente certi di essere casa, dell’esilio ignari, tutti gli uomini sul piano metafisico spacciati..
Cioran è un mistico che per una viziata volontà o per destino ha procrastinato la propria terrena trasfigurazione fino a farsela sfuggire, ma sempre tenendosela davanti, come il possibile orizzonte del sublime da non toccare perché non vada in frantumi o si dissolva, alla stregua di un miraggio nel deserto. Forse, kafkianamente, anche per lui un castello, vicino e insieme lontanissimo, si ergeva, una silenziosa legge risplendeva, ma nessuna via poteva scorgere che là lo conducesse. Nessuna via umana. O la porta era tanto spalancata da risultare intransitabile. O ancora temeva che in nessun luogo fosse la salvezza, nemmeno in Dio. Così non si è mai davvero incamminato. Eppure quale inesausto, struggente, non di rado eccelso dialogo con Dio… anche beffardo a volte, caustico, ingiurioso. E se fatiche di Sisifo ci appaiono le sue scalate al cielo, o simulazioni di scalate, non vuol dire affatto che una fatica di Sisifo sia stata l’intera sua ammirevole esistenza – e quella di ogni uomo, caro Camus… – perché come fulgidamente canta il fulgido Péguy nel suo poema Il portico del mistero della seconda virtù “Tutti i giorni, voi dite, tutti i nostri giorni sono gli stessi / sulla terra, sono lo stesso. / Partendo dagli stessi mattini vi portano alle stesse sere. / Ma non vi guidano alle stesse sere eterne. / Tutti i giorni, voi dite, si assomigliano. – Sì, tutti i giorni terrestri. / Ma state tranquilli, bambini, essi non somigliano / all’ultimo giorno, a quello che non somiglia a nessun altro”.
Di seguito si delibino i titoli non ancora evocati dei suoi libri : Esercizi di ammirazione, Storia e utopia, Sillogismi dell’amarezza, I nuovi dei, La caduta nel tempo, L’inconveniente di essere nati. Ma i monumentali Quaderni, sedici anni di diari parigini usciti postumi, rappresentano forse il libro in cui con la più grande ebbrezza mi sono sprofondato. Ricordo di averli letti in meno di due giorni, di insonne e lucida passione, di semi-anestesia dei sensi, di feroce veglia dell’intelletto e dello spirito. Quello del diario è una genere bellissimo, che dell’anima riflette il respiro quotidiano, purché a tenerlo sia una grande scrittore. Qui, più che altrove, nei meandri delle sue fitte pagine, di verità vergate e d’abbandono, nella carne logora e splendente di ogni tramonto e di ogni alba, di ogni mattino, meriggio, sera e notte, sentiamo la commovente prossimità, la vicinanza feriale e prodigiosa dell’artista. Il diario non è perfetto, e alla perfezione non tende. Della creazione letteraria non ha la compiutezza, il rigore, la struttura e il disegno sapienti, la necessità incontrovertibile e oggettiva. Eppure a suo modo è necessario, intimamente, sommessamente necessario, al suo estensore in primo luogo, ma anche a noi che con trepidazione lo leggiamo, altresì amandone il più modesto lessico, la sintassi meno sfolgorante, la non avvenuta limatura, la bellezza aurorale e intrecciata di sospiri, di dubbi, di paure, le lacrime e i silenzi, le parole effimere, la voce querula e melodiosa, supplichevole e veemente, che ci giunge come il lento e pazientemente reiterato e mai uguale frangersi delle onde sulla riva, che ci incanta come il transito delle nuvole nel cielo, come una duna di sabbia che all’infinito il vento del deserto scolpisca e poi dissolva. Il diario è l’altra faccia dell’opera, il suo prosaico contrappunto, il suo volto più tenero e tremante. Ed è anche la nostalgia dell’opera, la sua speranza. Nel diario, con se stesso e con noi, lo scrittore parla, spera, prega, sorride, odia, ama, soffre, tace. Come nel diario, in nessun altro luogo di parole il genio si fa domestico ed amico.
E i Quaderni di Cioran, d quest’uomo tanto terribile nella scrittura quanto affabile nella vita, non sono steppe siberiane, ma giardini di delizie, molto più paradisiaci che infernali. Tutto brucia e illumina. Tutto, dal pensiero siderale intorno a Dio al prosaico diverbio con la fruttivendola, dal giudizio letterario svagato e affilatissimo alla notte insonne, dall’invereconda sbornia all’aforisma sgomentante sulla natura umana.
l’acuminata riflessione storica, laddove si dichiara potenziale apologeta della Prussia, ultimo caduto bastione contro le orde sovietiche, e dei prussiani, meno crudeli di tanti altri popoli, infinitamente meno spietati degli austriaci, dei bavaresi, dei renani, dei tedeschi del sud, i veri generatori del nazismo.
O la disarmata confessione, il palpitante anelito di un’anima braccata dall’assoluto, di uno spirito la cui sovrana malinconia è la reminiscenza del Bene, la sua ineffabile speranza. L’inquietudine di chi sente la brezza dell’infinito, avverte il suo bisbiglio, per riecheggiare Romano Guardini e il suo preziosissimo libro Ritratto della malinconia, proprio da Cioran, nei Quaderni, elogiato.
Il devoto ascolto della Passione secondo San Giovanni lo appaga al limite dell’estasi, ma poi prega così “Signore, fa che non debba soccombere a questo fuoco, al mio o al tuo – chi lo sa?”.
Dai Quaderni può anche essere secreta una cauterizzante pirotecnia di motti “Combatto la disperazione con l’ira e l’ira con la disperazione. Omeopatia?”. E se Hitler, al funzionario che nel bunker di Berlino prima di congiungerlo in matrimonio con Eva Braun gli chiese se fosse ariano, avesse detto no, sarebbe stata la più fenomenale risposta della storia.
E ancora “Sade non è né uno scrittore né un pensatore. (I surrealisti, Blanchot, Bataille, Klossowski si sono completamente sbagliati su di lui.)”. Del resto, lo afferma lui stesso, della generazione Sartre-Bataille gli interessa solo Simone Weil. E più oltre “ ho appena letto un articolo di Klossowski su Nietzsche privo di senso, che vorrebbe essere profondo ed è solo arzigogolato. Non si capisce dove l’autore voglia andare a parare; e questa è la cosa più grave che si possa rimproverare a uno scrittore. D’altronde l’indeterminatezza e il mistero sono molto apprezzati dai giovani, che incapaci di un pensiero chiaro, inconsciamente si rallegrano di ritrovare i loro stessi difetti nei maestri.”
Ad altri, saggiamente, lascia la più pomposa fama; lo scacco, il fallimento in attimi di grazia gli dischiudono o gli fanno presagire iperuranici tesori. Le forche caudine del tempo e dello spazio: bisogna passarci attraverso, in tutte le fibre del proprio essere patire l’entropia dell’universo, la dispersione, lo sfacelo, l’infinita vanità del tutto, per tutto guadagnare, per tutto vincere nell’ordine supremo dello spirito. La derota es el blason de l’alma bien nacida; La sconfitta è il blasone dell’anima ben nata. Non so se Cioran conoscesse questo proverbio spagnolo che esalta la morale aristocratica dell’ hidalgo. Di certo l’avrebbe amato. Ecco la sua idea della gloria “Camminare in un bosco tra due siepi di felci illuminate dall’autunno : questo sì che è un trionfo. Che cosa sono a paragone le lodi e le ovazioni?”. E cosa il denaro, e cosa il possesso che a tal punto egli detestava da non avere, lui, Cioran, una sua propria biblioteca.
Se la profonda necessità è ciò che distingue una vera opera d’arte e ciò che nell’arte più manca, soprattutto oggi, Cioran è anche questo, un maestro di necessità. Perché di talento, di intelligenza, di tenacia sono dotati quasi tutti. Ma non di luce. Torturato dall’insonnia, dal suo nulla senza tregua, Cioran, giovanissimo, scrive a Sibiu in Transilvania, un libro il cui stesso titolo testimonia di un coraggio e di una necessità assoluti: Al culmine della disperazione. Lo scrive nella sua lingua d’origine, il romeno. È una catarsi, una liturgia iniziatica e liberatoria, una specie di “esplosione salutare”. Se non l’avesse scritto, lo dice lui stesso, certamente avrebbe posto fine a quegl’antri di veglia coatta, a quelle caverne crudeli, a quelle bolge di buio interminabili e senza quiete che dovevano essere le sue notti. Da tale immacolata necessità nasce il suo libro; da una simile immacolata necessità dovrebbe nascere ogni libro. Al culmine della disperazione, pur essendo, com’è naturale, meno perfetto di altri, più maturi e magistrali, più formalmente impeccabili nel loro superbo francese, tuttavia tocca ed incendia in modo unico. Il suo epilogo mi resterà inciso dentro per sempre “La sola cosa che possa salvare l’uomo è l’amore. E se molti hanno finito per trasformare in banalità quest’asserzione, è perché non hanno mai amato veramente. Aver voglia di piangere quando si pensa agli uomini, di amare tutto in un sentimento di suprema responsabilità, sentirsi invasi dalla melanconia al pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per gli uomini, ecco che cosa significa salvarsi attraverso l’amore, la sola fonte di speranza.
Per quanto combatta al culmine della disperazione, non vorrei né potrei rinunciare all’amore neppure se la disperazione e la tristezza occultassero la fonte luminosa del mio essere, dislocata in chissà quali angoli remoti della mia esistenza.
In questo mondo ogni cosa può farmi cadere, tranne l’amore. E anche se al tuo amore si rispondesse con disprezzo o indifferenza, anche se tutti ti abbandonassero e la tua solitudine fosse senza appello, i raggi del tuo amore che non sono potuti penetrare negli altri per illuminarli o rendere la loro tenebra più misteriosa si rifrangeranno per ritornare in te, perché nell’istante dell’ultimo abbandono il loro fulgore ti faccia luce e le loro vampe ti riscaldino. Allora le tenebre non saranno più un’attrazione irresistibile, e la visione delle profondità smetterà di darti le vertigini.
Ma per accedere a questa luce totale, all’estasi dell’assoluto splendore, al culmine e ai confini della beatitudine, smaterializzati dai raggi e purificati dalla serenità, occorre essere sfuggiti definitivamente alla dialettica della luce e delle tenebre e pervenuti all’autonomia della prima parola. Ma chi può essere capace di tanto amore?”.
Questa non è soltanto “letteratura”. O è letteratura che trascende se stessa, che compie se stessa, che scioglie se stessa in un miracoloso inno alla carità. Letteratura che sta ad un passo dalla rivelazione. E poco importa se questo passo non sarà mai fatto, se ignoto rimarrà il Bene. Poco importa, perché sta tutto in quest’attesa, oltre quest’attesa non c’è nulla. Solo Dio.

Karl Kraus

Le parole sono belle quando incarnano la verità. Ma naturalmente incarnano la verità soltanto quando sono belle. Alla verità gli stupidi non credono; anche questo è naturale. Né alla bellezza che per loro è sempre filia temporis, mentre ad esserlo è solo l’estetica. Karl Kraus ha catturato la Stupidità Umana e ne ha fatto un capolavoro abbagliante.
Il ventotto aprile del 1874 e il dodici giugno del 1936 sono stati gli estremi, cronologici, del soggiorno terrestre di uno dei più grandi scrittori, nonché del più grande aforista del secolo scorso. Jicin in Boemia e fatalmente Vienna, dove trascorse quasi per intero la sua esistenza, gli estremi geografici. Il fulgore fatiscente dell’impero austro-ungarico è stato dunque il suo mondo. Nel sontuoso sfacelo del regno asburgico Karl Kraus ha destinalmente dimorato. Ha respirato all’aria bizantina e gelida del tempo ultimo; della finis Austriae. I suoi respiri hanno incantato un’epoca, un cosmo che si inabissava, che celava e dispiegava il caos, e non finiscono di incantare. Perché la parola di Kraus è anche questo, un incantamento; un sortilegio, un rito apotropaico. E perché dell’aforisma è il respiro più lungo. Quantunque tutto ciò che Kraus ha scritto respiri lungamente – dalle “Parole in versi” ai saggi a quell’ “opera maestosa e mostruosa”, secondo l’espressione di Roberto Calasso, che è Gli ultimi giorni dell’umanità, a un libro che non si può definire, a un libro esorcismo come La terza notte di Valpurga -, respiri nell’unica direzione possibile per un’arte e per un’umanità autentiche: ad infinitum.
Nessuno scrittore è mai stato una cosa sola con la sua rivista come Kraus con “La Fiaccola”. Nessuna rivista ha mai bruciato come “La Fiaccola” di Kraus. Venuta alle tenebre per portare luce, ossia uscita la prima volta nel 1899, ha continuato a bruciare fino al 1936, anno in cui il suo genio si è dimesso dalla vita. Non sarebbe potuta morire prima, non sarebbe potuta durare oltre, essendo una mistica emanazione, un demonico sprigionamento di Kraus stesso. In non pochi, eminentissimi ed eminenti, collaborarono alla “Fiaccola”; tra essi Strindberg, Wedekind, Liliencron, Altenberg. Ma Kraus scrisse quasi da solo la sua luciferica rivista. Del resto, nella seconda silloge di aforismi intitolata Pro domo et mundo scrive: “Non ho più collaboratori. Ero invidioso di loro. Mi facevano perdere dei lettori che volevo perdere io stesso.” La “Fiaccola”, come l’intera opera di Kraus, è un irretimento magico del mondo. Come attratta da un formidabile magnete ogni umana stupidità e nefandezza si inviluppa nella parola di Kraus, e questa, sanguinante, ne fa giustizia. Quanto più ne sanguina, tanto più ne fa giustizia. È sovranamente di Kraus quella “sostanza assassina” che Canetti attribuisce ai grandi scrittori satirici, ma definirlo sic et simpliciter scrittore satirico è come definire Dio arredatore dell’universo. Anche perché le definizioni sono buone soltanto per i manuali e per i professori di letteratura. Attraverso la parola Kraus chiama ad essere le cose, crea ed eterna ciò che meramente esiste, ciò che di male esiste, per esaurirne in sé tutto il veleno. Egli stesso facendosi veleno. Perché l’autore de Gli ultimi giorni dell’ umanità ha bisogno, per essere, del male, che come uno sciamano evoca. Non è innocente chi conosce il male; e Kraus lo conosce al punto da essere quasi implicato nello scandalo della sua creazione, da rimanerne quasi affatturato. Questo il suo mistero tremendo, che è anche il mistero di ogni poeta. Non si affrontano i demoni con i buoni sentimenti. In altre parole, che ne sarebbe stato di Kraus senza il male, e senza quel suo sinonimo che è la stupidità? l’immensa, tentacolare, accecante stupidità? Kraus battezza il male, e di esso conosce tutti nomi. Per queste forche caudine passa la via che conduce alla redenzione: “Non c’è un essere così positivo quanto l’artista il cui materiale è il male. Egli libera dal male. Tutti gli altri non fanno che sviare il male e lo lasciano nel mondo, che si trova allora tanto più duramente colpito da un sentimento di derelizione”.
Dopo aver letto un’aforisma di Kraus la vita non può più essere la stessa. Ovvero, la vita continua ad essere, impunemente, la stessa, ma è il nostro sguardo che riconoscendosi nel suo di fuoco muta nel più inesorabile dei modi. Come nessuno Kraus rovescia il mondo; come nessun altra la sua lingua incenerisce. E poiché la voce più esatta e più inflessibilmente vera è sempre quella della poesia, ricordiamo i versi con cui Georg Trakl – oltre al necrotico e mistico Salmo a lui dedicato – effigiò Kraus: “Bianco pontefice della Verità, / voce di cristallo, che alberga il respiro ghiacciato di Dio, / irato mago, / cui sotto il mantello fiammante tintinna l’azzurra corazza del guerriero”. I poeti non temono di usare parole come verità. La scrittura di Kraus obbliga la menzogna a inginocchiarsi, la costringe a deporre la maschera. Sotto l’aereo, coartante peso delle sue proposizioni si flette e cede la massa inerte del mondo. Circondato dalla realtà, Kraus circonda la realtà con la parola. Nella sua implacabile tensione, nella sua perfetta tornitura, la parola di Kraus, rappresa in breve, lancinante folgore o espansa in catafratta, lavica colata, stritola ogni parola che veicoli la menzogna e il nulla. In principio era il verbo, e a quel verbo Kraus è fedele. Non potrebbe non esserlo neppure se lo volesse, perché il linguaggio lo possiede e gli comanda di testimoniare la verità: “Io domino solo il linguaggio degli altri. Il mio fa di me quello che vuole”. Gli ingiunge di scrivere bene, il che implica scrivere il Bene. Ancorché attraverso il male. E Kraus scrive in modo eccelso perché dai cieli gli scende la parola.
Gli ultimi giorni dell’umanità – dramma portentoso e immisurabile, fiume che esonda da ogni alveo, inaudito evento naturale, sommovimento tellurico in veste di teatro – riproducono le tenebre, farsesche ed abissali, che inghiottono l’Europa al divampare della grande guerra. Virgolettano un’epoca che inaugura l’infinita fine dell’umanità; l’inizio della guerra perpetua. Ma quando Hitler prende il potere a Kraus non resta che il silenzio. “Io mi intaglio l’avversario sulla misura delle mie frecce” aveva scritto. Nessuna freccia però era della misura di Hitler, poiché Hitler era ciò che non ha misura. Contro il più mostruoso dei nemici, contro il nemico lucifugo e colossale che oscurava l’orizzonte, il veggente Kraus non aveva alcuna freccia da scagliare. La parola magica di Kraus si infrangeva davanti alla satanica logorrea del niente; alla sua raggelante mutezza metafisica, alla sua ctonia, immane potenza. Fin quando non scocca il miracoloso incipit de la Terza notte di Valpurga: “A proposito di Hitler non mi viene in mente niente”. Non viene in mente niente perché viene in mente il Niente. La mano pietosa della morte risparmierà all’ebreo Kraus la metastasi dell’orrore. Di fronte ad Auschwitz forse, davvero non avrebbe avuto più parole.
I tre libri di aforismi di Kraus, Detti e contraddetti, Pro domo et mundo e Di notte, sono tra le opere miliari del secolo ventesimo. Appartengono a quel novero di capolavori senza aver letto e profondamente amato i quali è velleitario voler parlare di letteratura. O meglio, è velleitario voler parlare tout court. E questa non è una nostra opinione, ma semplicemente la realtà dei fatti. Poiché non siamo, per fortuna, nel campo delle scienze esatte, non possiamo dimostrarlo. Ma ci sono evidenze più abbacinanti di qualunque dimostrazione. È probabile che in Kraus l’arte aforistica attinga il suo culmine. L’idea platonica stessa di aforisma, ciò che questo deve essere nelle praterie iperuranie, nel cielo delle idee, ha forse qui la sua più perfetta incarnazione. Gli aforismi di Kraus assomigliano al giudizio di Dio. Una quasi sempre tracimante intelligenza non intorbida mai una profonda, adamantina vocazione etica; una sete inestinguibile di luce. Non capirli è un male. Ma capirli fino a un certo punto è un autentico delitto. Kraus non è uno scrittore per intellettuali, ma più modestamente uno scrittore per illuminati. O quantomeno per illuminandi. Se evochiamo il più pop degli aforisti, Oscar Wilde, (per altro grande, da Il principe felice al De profundis a La ballata del carcere di Reading), possiamo affermare che sta a Kraus come uno spogliarellista al seduttore di Kierkegaard. Come in certe raffigurazioni medioevali il mondo è alla rovescia. Kraus, che addomestica demoni e parla con le sfere, rovesciandolo di nuovo rimette il mondo nella sua posizione naturale: “Una antitesi ha l’aria di essere semplicemente un capovolgimento meccanico. Ma quale contenuto di esperienze, sofferenze e conoscenze bisogna aver acquisito, prima di poter capovolgere una parola!”. Assunto questo di scintillante evidenza agli occhi di chiunque sia destinato a capirlo; e altrove così magistralmente declinato: “Un professore di letteratura opinò che i miei aforismi sarebbero soltanto il rovesciamento meccanico di certi modi di dire. È senz’altro esatto. Solo che non ha còlto il pensiero che regge la meccanica: e cioè che nel rovesciamento meccanico dei modi di dire vengono fuori più cose che nella loro ripetizione meccanica. Questo è i segreto del giorno, e bisogna averne fatto esperienza. Con tutto ciò il modo di dire si differenzia comunque a tutto suo vantaggio da un professore di letteratura, dal quale non viene fuori niente, sia che lo si lasci riposare in pace sia che lo si rovesci meccanicamente”. Qui, come spesso in Kraus accade, l’argomento che il mondo impugna contro di lui diviene l’argomento con il quale Kraus distrugge il mondo. Perché Kraus è fedele al linguaggio, attinge alle sue stesse scaturigini. Il linguaggio parla per bocca sua, e coloro per bocca dei quali il linguaggio parla, non possono fallire, sebbene esso venga quotidianamente violentato dagli uomini massa: “Il linguaggio è il materiale dell’artista letterario, ma non appartiene a lui solo, mentre il colore appartiene esclusivamente al pittore. Perciò si dovrebbe impedire agli uomini di parlare: la mimica è più che sufficiente per i pensieri che la gente ha da comunicarsi. È forse permesso che ci imbrattiamo continuamente gli abiti con i colori a olio?”. E ancora: “Lo sciocco, che non riesce a passare davanti a un enigma cosmico senza scusarsi ricordandoci che si tratta della sua opinione di incompetente, si intasca le lodi per la sua modestia. L’artista che fa pascolare i suoi pensieri su un tombino è un arrogante.” Gli aforismi di Kraus non sono soltanto geniali, sono anche supremamente comici. E come potrebbe essere altrimenti? dal genio comicità e tragedia sono secrete per natura. E fame e sete di giustizia. E implacabile brama d’assoluto.
Questo esile e spericolato saggio non può purtroppo fungere da antologia. Ma un’antologia di Kraus è vergata, con lettere di fuoco, nella nostra anima. Qui nulla più è dato riportare che uno sparutissimo diadema d’aforismi; esortante però ad una lettura infinita. Le antitesi di Kraus, i suoi folgoranti paradossi, le sue ordalie verbali sono la porta stretta tramite cui si accede alla verità, (ancorché l’aforisma non coincida mai con la verità; “o è una mezza verità o una verità e mezzo”). Egli non conosce ideologia poiché letteralmente e miracolosamente vede: “L’uno scrive perché vede, l’altro perché sente dire”. Non opina, non pensa per categorie, non media, non procede dialetticamente. Si limita a vedere. E ad ascoltare. Questi sensi gli bastano per raggiungere il cuore della verità; per profetare anche. E infine, o in principio, scrive; come se ogni parola avesse a che fare con la vita e con la morte, come se il Giorno del Giudizio – senza le virgolette che tanto piacciono ai contemporanei e con le iniziali rigorosamente maiuscole – fosse già tra noi. Forse rientra nei compiti del genio quello di anticipare il Giorno del Giudizio: “Con la maggior parte degli uomini io non riesco a spingermi fino all’anima, ma comincio a dubitare già delle viscere. Perché non posso credere che questo mirabile meccanismo sia stato creato per mettere insieme un commendatore, e soltanto l’autopsia può convincermi che un usuraio abbia una milza”.
Della parola priva di aura, mutila di senso metafisico; della parola scevra d’anima e di suono; della parola putrida da cui non goccia l’essere ma il niente, dunque di quasi ogni parola detta e stampata, Kraus è stato il più sottile, il più inesorabile, il più enorme dei nemici. “Ciò che è stato stampato in un solo giorno degli ultimi cinquant’anni ha avuto più forza nel distruggere una civiltà che non le opere complete di Goethe nel difenderla”. Oppure: “Io credo che noi dobbiamo fondamentalmente una cosa alla stampa, la quale di recente è apparsa ai ministri “indispensabile come interprete dei punti di vista diffusi nella popolazione”: e cioè che un caffettiere vivo ci è ogni giorno più presente di Grillparzer, Schubert e Stifter. Il che d’altra parte dovrebbe coincidere con i punti di vista diffusi nella popolazione”. Questa è la Vienna di Kraus, ma è anche tutto il mondo. È ciò che era quando il bianco mago dalla corporatura minuta e dagli occhiali ovali prendeva la penna in mano e ordinava al destino di non nuocergli fintanto che la sua vindice frase non fosse terminata, e ciò che adesso rovinosamente è. Come tutti i grandi scrittori, Kraus non è stato solo un superbo diagnosta del proprio tempo, ma anche un autentico profeta.
Per Kraus l’artista è colui che sta dall’altra parte della vita. Colui che salvando dalla vita, salva la vita. Il suo odio è in realtà un’epifania d’amore. Benché in esilio, la sua voce inconfondibile e furente, venefica e lenitiva, ci fa sentire a casa. Benché sia notte, un’aforisma di Kraus spalanca le porte dell’anima e invita il giorno ad entrare. “Tutta l’arte mi sembra essere soltanto arte per l’oggi, se non è arte contro l’oggi. Fa passare il tempo – non lo caccia via! Il vero nemico del tempo è il linguaggio. Esso vive in una intesa immediata con lo spirito indignato del proprio tempo. Qui può nascere quella congiura che è l’arte. La compiacenza, che ruba le parole dal linguaggio, è nelle grazie del tempo. L’arte può venire soltanto dal rifiuto. Solo dal grido, non dalla rassicurazione. L’arte, chiamata a consolare, abbandona con una maledizione la stanza dove l’umanità è morta. Il suo compimento è la dove non c’è più speranza”.

Tragedia all’italiana

Sarebbe così facile accostare il personaggio dell’ingegner Santenocito, uno strepitoso e cannibalico Vittorio Gassman – protagonista di In nome del popolo italiano, film del 1971, di Dino Risi -, corruttore, industriale della plastica, impresario edile, finanziere, potentissimo figuro dal multiforme ingegno criminoso, all’uomo che, trentotto anni dopo il film, da tre lustri schiaccia sotto il suo tacco (rialzato) l’Italia, puttaneggiante e serva, all’antropoide ridens che diuturno vocifera e delinque, che sparge e calamita il niente, che dal pozzo avoca a sé la feccia, al venditore di pentole più bravo del sistema solare; sarebbe, dicevo, così facile, che non mi abbasserò a tanto.
Risi è un grande regista, un cineasta massimo ma anche lievemente schizoide: ha fatto film eccellenti, ne ha fatti una rutilante teoria, ma si è altresì tolto lo sfizio di partorire qualche pellicola di inutilità sbalorditiva. Questo, In nome del popolo italiano, appartiene alla prima categoria. Un altro grande del nostro cinema, Ugo Tognazzi, interpreta il giudice Bonifazi, sorta di Saint Just senza terrore, idealista ed implacabile, geneticamente alieno a tutto quanto lo circonda. E Santenocito è la sua giusta ossessione. Santenocito che, come un re Mida degradato, corrompe tutto ciò che tocca, e si fa toccare solo da ciò che esala corruzione. Nuota, come uno squalo, nelle acque torbide della società italiana; è nel suo habitat, nel suo eden elettivo. Fa da sfondo la Roma dei primi anni settanta, ma anche la Roma eterna dei cesari e dei papi. E l’Italia eterna, l’Italia manzoniana, e flaianea, dove la situazione è perennemente grave ma non seria. Acutissimi e quasi intollerabili effluvi di grottesco emanano dal film, che altresì non manca, soprattutto nel finale, di venarsi di tragedia. L’umorismo acuminato di Risi non libera. Lo sguardo disincantato del moralista non può far altro che depositare un velo di ineluttabile amarezza sulle cose. Il riso rimane dentro, soffocato, non raggiunge l’aria per divampare al suo contatto, non esplode. Si paralizza, si congela, si contrae in una cruda smorfia, per ricordare un osso montaliano. Ecco, la smorfia; la smorfia di dolore e di disgusto di fronte al mondo, così come il mondo è, e come, forse, non può non essere.
Il giudice Bonifazi è un uomo solo. La moglie l’ha abbandonato, non ha figli; quasi che, in una sorta di darwinismo maledetto, solo gli incoscienti, o gli acoscienti, per malvagità o mera deficienza, siano adatti alla perpetuazione della specie. I colleghi lo insolentiscono: memorabile l’alterco al palazzo di giustizia con un magistrato siciliano il cui strabismo di venere è come il segno visibile di una lesione morale. Perché se Santenocito è il principe dei mostri, i mostri risiani sono ovunque. Come i genitori della ragazza che a Santenocito si prostituisce e che essi stessi inducono a prostituirsi, e che, interrogati da Bonifazi sulla morte della figlia, si producono in un linguaggio di microborghese, ferocissima bruttezza e stralunata, raggelante ipocrisia. Il giudice Bonifazi è solo; infrange se stesso contro il muro invalicabile della realtà antropologica italiana. Invalicabile ed immutabile. Bonifazi è persuaso che Santenocito sia responsabile per la morte della ragazza che con lui e per lui si prostituiva. Ma Santenocito è tutto fuorché un assassino. Assassini si nasce – o, in talune circostanze, si diventa – e l’ingegnere, ancorché magnete umano di ogni nefandezza, assassino non è nato, né lo è diventato. Per un beffardo paradosso, per un tragico, specularmente invertito gioco del destino, non è possibile dimostrare ciò che ha fatto, ma è possibile dimostrare ciò che non ha fatto.
Solo alla fine capiterà tra le mani di Bonifazi la prova dell’innocenza di Santenocito: un quaderno della ragazza, dove ella confessa il suo male di vivere, e il suo desiderio di darsi la morte, messo in atto pochissimo tempo dopo l’ultima pagina di diario. Bonifazi sfoglia quelle pagine mentre attraversa l’urbe che una partita della nazionale ha ridotto ad un deserto. Molti anni fa Risi intuì cos’era e soprattutto cosa sarebbe diventato il calcio, quello che ai nostri poveri giorni de facto inconfutabilmente è: insieme ed inestricabilmente alla televisione, alle lotterie e ai giochi a premi uno degli articoli fondanti di una nostra non scritta ma veramente comune costituzione. Al fischio finale che decreta la vittoria dell’Italia, una folla acefala, un’inconsulta plebe si riversa, rutta se stessa nelle strade. È un carnevale infero, un meriggio di Valpurga dove sottouomini – più che demoni – si danno spontaneo e lutulento convegno. Il peccato della voce umana si moltiplica, raggiunge il parossismo; è il caos, da cui nessuna stella danzante nasce. Siamo tra Bosch o Brueghel e Fellini, ma un Fellini senza poesia. Non c’è più l’uomo, ma soltanto il suo più grande nemico: l’uomo massa. E in tutti questi volti che non sono volti ma grugni, Bonifazi vede Santenocito; vede l’italiano, vede Don Rodrigo. Antevede, forse, il cavalier banana. A questa vista il giudice impietrisce e in un gesto tragico, in un gesto senza ritorno butta via il diario della ragazza, unica prova dell’innocenza di Santenocito, in una pira oscena innalzata dai festanti. Bonifazi, dantescamente, ingiusto fa sé contro sé giusto.

La commedia disumana

Dacci oggi il nostro inferno quotidiano. Anche così avrei potuto intitolare questo mio ennesimo tributo d’amore al cinema (e mi correrebbe forse l’obbligo di coniare un neologismo per meglio definire questi estremamente miei e tacitiani saggi per la decima musa), questa agonica esegesi, questo certamen, non con altri critici naturalmente, di cui non mi curo affatto ma scrivo e passo; certamen con il film medesimo. Con America oggi stavolta, (Short cuts, Tagli corti), probabile capo d’opera di un autentico maestro, Robert Altman.
Ispirato alla narrativa di Raymond Carver America Oggi è davvero un girone dell’inferno da cui non soltanto il cielo ma anche il purgatorio è remoto e inaccessibile, e quindi, di fatto, inesistente. Questo girone si chiama Los Angeles e i dannati sono i suoi abitanti, tutti senza eccezione alcuna. Una calvinista massa damnationis egregiamente ritratta dal cattolico Altman che cieca si muove nei dedali di uno spaventoso formicaio, perché, misteriosamente, imperscrutabilmente, nessuno si salva; anche i pochi che lo meriterebbero, come la giovane violoncellista, partecipano di una comune sorte: l’antialchemica nientificazione della vita. Su questa città degli angeli, su questo tartaro di strade tutte uguali, non si allunga l’ombra di nessuna celeste creatura. Poche volte l’irrealtà o l’occultamento della grazia divina sono stati resi nel cinema con altrettanta mirabile potenza.
La dannazione, la vacuità ed il niente, non evolvono né involvono, non procedono né recedono, ma hanno un mero movimento circolare, perché all’inferno non esiste il tempo, condizione prima di ogni avventura umana, di ogni storia. O il tempo ritorna infinitamente su se stesso, si cristallizza in incubo senza possibilità di redenzione. Così in America oggi, (che vede tra i suoi interpreti, nei panni di un tassista ubriacone, anche Tom Waits, con Nick Cave e il nostro Battiato fra i più grandi cantautori viventi) apoteosi del non senso, orbicolare commedia disumana, le cui vicende si intrecciano, i cui protagonisti si incontrano, si urtano, cozzano, collidono solo per puro caso. Su di loro, dentro di loro, fra di loro il caso, nient’altro che il caso. Nessun destino, nessuna luce recondita o significato ultimo, soltanto un’ottusa, agghiacciante, meccanica casualità.
Anche il terremoto finale non può nulla. Ci vuole ben altro che un timido cataclisma per scuotere le fondamenta dell’inferno. Benché del luogo in cui si trovano i dannati non abbiano alcuna cognizione. Mi sovvengono le parole di Kierkegaard “…il carattere specifico della disperazione è precisamente questo: l’inconsapevolezza di sé, il suo essere inconsapevole come disperazione.”

L’uomo che non poteva amare

A volte i francesi sono un po’ pruriginosi. Non solo loro, si capisce; ma specialmente loro. Sembra che l’amore, con complicanze erotiche, sia il motore immobile dell’universo. A me la cosa dà un certo fastidio. Al punto che quando in un film due si baciano per più di un nanosecondo mi vengono gli urti del vomito. La verità è che il cinema passiosentimentalerotico annoia e tramortisce. Qualunque cosa è più interessante. Perfino la pornografia. Se non sotto il profilo estetico, senz’altro sotto quello filosofico-speculativo. Ispirato alla novella La principessa Mary di Michail Lermontov, Un cuore in inverno di Claude Sautet non è un film pruriginoso. È un film di una grazia straordinaria. Di una estenuata e musicale leggerezza. C’è Emmanuel Beart, Camille, attrice a ventiquattro carati, la cui bellezza e il cui fascino crescono coll’evolvere della storia, come un fiore che si apre alla luce del sole, per poi esserne bruciato. Più o meno come le nostre attrici, il cui fascino, sul principio inesistente, decresce man mano che ci si avvicina alla fine. Per realizzare come possa decrescere qualcosa che non esiste, sorta di antinomia, basta vedere Monica Bellucci (vorrei sbeffeggiarle tutte, ma devo accontentarmi, ne irrido una per dileggiarne cento): con un burka sarebbe più espressiva. E c’è Daniel Auteil, Stephane, faccia ferma, perturbante, un po’ schifata e semitragica. Con lui si veda almeno un altro film, L’avversario, di Nicole Garcia, noir allucinante e irrespirabile, trasposizione di una storia vera. Di un inferno vero.
Film meravigliosamente francese, silente ed autunnale, Un cuore in inverno è l’anticommedia all’italiana. Ricorda una composizione da camera, perfettamente ideata ed eseguita. Impeccabile, come impeccabili sono Stephane e Maxime nel loro alto lavoro di diagnosti, di custodi e maieuti di violini, non tanto oggetti per loro, quanto creature, lievi entità provviste d’anima. Stephane e Maxime non hanno clienti ma pazienti. E tuttavia, da subito, ti chiedi se questi due inappuntabili parigini siano uomini che, come voleva Nietzsche, danzano sulla vita o siano, più semplicemente, uomini vuoti. Non soltanto Stephane ma anche Maxime, che ha una relazione con Camille. Stephane non è bello, non è affascinante; è ipnoticamente neutro e neutrale. Una splendida forma cava da cui Camille si sente attratta e in cui Camille si perde. È il vuoto che calamita, il nulla che disarma. È il vero seduttore. La sua seduzione è fatta di niente. Di attesa, di tempi esatti, di silenzi, di parole che non dicono ma costringono a dire, ad esporsi, a farsi male. Egli seduce inagendo, per viam negationis. Guarda Camille senza desiderio, senza quell’implorazione e quella piaga nello sguardo che conferisce a una donna la consapevolezza della propria forza. No, lui la guarda e basta. A una cena, in cui tutti animatamente discutono, Stephane, da figlio del novecento, della letteratura del novecento, non prende posizione. Dichiara il suo scetticismo. Proprio quello che spaventa e insieme affascina una donna; quello che la vulnera, che la induce a misurarsi, a farsi paladina della specie. Lo scetticismo, così enigmatico, così contrario alla perpetuazione della vita, causa per cui la Donna è pronta a sacrificare la sua stessa vita.
Il famoso amore: Stephane è un uomo che l’ha incontrato, o dice d’averlo incontrato, e ha pacatamente, disperatamente concluso che questo amore non è poi un granché. Camille s’innamora di lui. Come lei si apre, poiché è un’anima amante, lui si chiude, o più precisamente torna ad occultare il suo sterile, disincarnato desiderio.
“Sono qui per te” gli dice Camille. Nient’altro importa. Glielo dice in macchina. Quasi tutti i dialoghi drammatici tra un uomo e una donna hanno luogo in macchina. Lui, senza ragione, la ferisce. Scientemente le procura una crepa nel cuore. Non per paura, non per qualche loffia causa psicologica. La ferisce al puro scopo di ferirla. Senza un barlume di pathos, senza una straccio di cattiveria. Il suo è un mero atto gratuito. Le dice che era soltanto un gioco. Non è vero; o forse sì, era soltanto un gioco. Ma un gioco tragico. E una donna, che di secondo nome fa vita, una cosa simile non può capirla: “Se era un gioco allora dovevi andare fino in fondo, portarmi a letto..”. Ma se lui l’avesse portata a letto sarebbe stato solo un idiota, non dostoieskiano, un idiota qualsiasi. E le avrebbe fatto meno male, poiché sarebbe almeno avvenuta una simulazione di vita. Anche quando, con tutta la sua disperata bellezza, Camille lo raggiunge in un ristorante per ricacciargli un po’ di male dentro l’anima, anche in quel momento è buona e quasi supplice. Anche in quel momento ama. Ma qualcosa di indecifrabile si annida nell’apatia di Stephane. Qualcosa di oscuro e immemoriale.
Stephane vede il suo vecchio mentore, l’unica persona da lui forse veramente amata, arreso alle amorose cure della sua donna di casa. Un po’ badante e un pò amante; la faccenda non è proprio chiara, ma poco importa. E capisce che occorre vivere in due. Come dice anche la Bibbia. E la Bibbia si sa, non sbaglia mai. Ma lui non ce la fa. Non può, semplicemente. Nessuno si prenderà cura di lui, e lui non si prenderà cura di nessuno.
Passa del tempo, e Stephane torna da Camille, non si sa bene con quali intenzioni, neanche lui lo sa. Naturalmente per lei è tardi. Tutto fila in modo liscio, estremamente regolare: Camille si rimette con Maxime, e anche l’amica libraia un po’sfigata di Stephane trova un bipede con cui accasarsi. Per il trasgressore della legge della vita, Stephane, la stessa pena da sempre comminatagli, e che lui stesso ha scelto, viene ribadita: solitudine. Il suo mentore, sul punto di morire, chiede l’eutanasia. E chi se non Stephane può esaudire la sua richiesta? Lui che non da la vita finisce per dare la morte.
Bellissima l’ultima scena: da dietro la vetrata di un locale Stephane guarda Camille andare via. Lei, splendida, si volta, per un attimo che non finisce più. I suoi occhi sono gli occhi stessi dell’amore. Lui è della razza di chi rimane a terra. Non sai se ha vinto o se ha perduto tutto. L’uomo che non può amare non può nemmeno piangere; guarda la vita da dietro un infrangibile vetrata. Guarda la vita andare via. Forse sbaglio, ma sembra quasi che sorrida. Come sorriderebbe uno che è straniero in questo mondo.

Una disperazione esilarante

Se Nanni Moretti non deprime il proprio cinema piallandolo sotto il morettismo come in Aprile, o tentando, con esiti imbarazzanti e a tratti risibili, di rappresentare il tragico – lui che il tragico non sa neanche cosa sia – come ne La stanza del figlio, Nanni Moretti è un regista di rara piacevolezza e intelligenza. Né grande cinema, secondo la vulgata degli idolatri, né teatrino, secondo l’altra vulgata, alla prima speculare, dei detrattori. Moretti ha uno sguardo breve, allergico alla profondità, ai verticalismi; cieli ed abissi gli sono estranei. Fustigatore di costumi, aguzzino e martire della stupidità trionfante, moralista di razza, forse l’ultimo dei moralisti, liturgo del paradosso e dell’ossimoro, sibarita di nevrosi travolgenti, cineasta di battute e scene memorabili: questo è Nanni Moretti. Ma non su Caro diario, gradevolissima – seppur talora indulgente al sopraevocato morettismo – summa del cinema morettiano darò due effimeri colpi di pennello, bensì su un altro film, più lontano nel tempo, più falotico e sottilmente inquietante: La messa è finita. Regista e, come sempre, attore, qui nelle vesti di un improbabile prete, di un sacerdote solo sul cuore della terra e un po’ giustamente antropofobico, Moretti, indossando l’abito talare, proprio nella misura in cui questo per niente gli si addice, da forse il meglio di sé, plasma il proprio mondo, da vita ad uno stile. L’eterno problema di ogni artista. Che Moretti faccia il prete è preliminarmente assurdo. Tale propedeutica assurdità conferisce a La messa è finita la sua forza. Emana dal film un’angoscia sottile, pervasiva, inesplicabile; attraversata da lampi di comicità adamantina, quei lampi che solo dal dramma, da un cuore sbuffante ed angustiato possono scoccare. Ma comicità ed ansia sono impastate insieme, lievitano in sincrono, si guardano come si guarderebbero due specchi. Il sospiro e la risata sono uno. Questo film è un sogno, sembra fatto della materia dei sogni. C’è dentro la stessa impossibilità che abita i sogni, certi sogni che sono quasi incubi, che stanno per diventare incubi. La stessa inquieta evanescenza, la stessa irrealtà. Nessuno parla, tutti monologano. Nessuno è dove si trova, tutti sono altrove. Oppure sono lì, ma inutilmente, grottescamente. Sono lì per farci morire dal ridere. Il mondo è questa cosa buffa, nauseante, questo sperpero di facce, di gesti, di parole. A ben vedere un po’ di vita, di respiro forte, di respiro vero c’è, può esserci, ma bisogna attendere, penare; girare a vuoto, girare su se stessi. Trovare muri che non si possono scalare, che sono dentro e che sono fuori; che sono dappertutto. Bisogna escoriarsi alla cartavetra dei giorni. E allora forse ci potrà essere almeno qualcosa che assomiglia alla vita, magari alla fine, come nel ballo in chiesa che conclude il film. Sulle note malinconiche e leggere di Bruno Lauzi (altro cinema morettiano è il grande, unico Battiato a impreziosirlo, ottimo segno per il nostro regista).
In questo film Moretti ha inventato una luce; ovattata, pomeridiana, fissa. Una luce indefinibile, metafisica. Potrebbero essere le tre di un pomeriggio infermo, che non si alza, che non finisce mai. Potrebbe essere mercoledì, anche se non siamo a Cesena, e se non piove, come diceva un altro Moretti, Marino. Questa luce, certo, non illumina; e tuttavia non si lascia dimenticare.

L’ALTRO NOVECENTO

Marino Biondi
Firenze Novecento. Intellettuali mistici poeti
(recensione)

Sei saggi, di diverso argomento ed estensione, confluiscono nel libro Firenze Novecento , di Marino Biondi, appassionata ricognizione critica, scandaglio ad alto voltaggio di non troppo vulgati segmenti dell’ appena trascorso secolo culturale nel capoluogo toscano. Intellettuali mistici poeti è il sottotitolo “forte” dell’opera, tesa ad abbracciare categorie alte, irriducibili e complementari dello spirito. Sottotitolo forte perché annette una dignità e un valore, altresì sub specie squisitamente storiografica, all’altrove ignorato, negletto o dimidiato misticismo. L’egemonico, a lunghi tratti dispotico laicismo di impronta elettivamente progressiva ha fatto, diciamolo, più danni della grandine. Per voler tutto “illuminare” – ora ideologicamente catechizzando e didascalizzando, ora misurando, scomponendo, decostruendo e strutturalizzando – si sono bruciate delle retine, compromessa, speriamo non per sempre, la facoltà di vedere. Forse è tempo che qualcuno esca dall’ombra. E che qualcun altro, magari, ci rientri. Nella seconda metà del Novecento, una dittatura culturale – senza, certo, legnosi e legnanti manganelli – ma con molti aspersori, turiferari, ed altri apparati liturgici è stata esercitata. Nuovi catechismi sono stati stilati, scomuniche impartite, scismi consumati, bolle promulgate, innalzati roghi. Roghi fortunatamente metaforici, ma qualcosa, una metafora, vorrà pur dire. Niente di peggio del dogmatismo secolarizzato, farcito di contenuti mondani, e oltretutto, di scarso o perfino nulla valenza empirica e sperimentale.
Il Novecento, un grande secolo che non smette di finire, che sconfina, un fiume in piena con affluenti innumerevoli, una megalopoli, di cui siamo ancora irrefutabilmente abitatori, tagliata da molte strade, certune poco frequentate ma importanti, belle, o quantomeno degne di onorevole menzione, ricche di una loro peculiare e cospicua fisionomia. E, nella fattispecie, il Novecento fiorentino, centralissimo, eminente. Biondi addita, interpreta e rischiara alcuni di questi percorsi.

Apre il libro e la sua prima sezione intitolata Palazzeschi il saggio Frammenti di un discorso amoroso in “Sorelle Materassi” ,esegesi complessa nonché francamente dilettevole del conducente tema erotico nel più popolare romanzo dello scrittore fiorentino, “toscanamente e cristianamente riconciliato”. Pur fluendo la penna di Palazzeschi, lievissima e giocosa, quasi smaterializzante e, mi si passi il termine, antigravitazionale, nel libro l’amore anima e disanima ogni cosa, tutto scompiglia e sommuove. Al confronto di Sorelle Materassi tanta letteratura cosiddetta erotica, finanche la più accesa e diavolesca, sotto un certo aspetto impallidisce, perché “l’amore potente, l’amore eseguito, l’amore realistico, possono essere detti con facilità così corriva, da non avere neppure diritto al racconto, ma è l’altra specie d’amore, dei sogni e dei bisogni, delle abissali frustrazioni e delle fameliche urgenze, così come l’amore degli impotenti e degli impediti, dei deviati e degli ossessi, delle identità travestite, che ama un linguaggio assai più complicato, tessuto nella lascivia delle reticenze e dei segreti.” Biondi coglie una vaga, sfumata e naturalmente non tragica aura nicciana emanare dal romanzo e in particolare dalla figura di Remo, la cui “bellezza è l’unico valore, anarchico e sconvolgente, ingiusto e proditorio, la forza che chiama a sé ogni diritto, che non riconosce altro che se stessa” . Una bellezza egotistica, vuota, dietro cui niente si cela, che nulla significa; bellezza acefala che sprigiona come da una specie di vivente cartonato mobile, trionfalmente scevro di passato e futuro, di troppo umane mutazioni diacroniche. “È tutto nel presente, nella presenza-assenza. Un tratto che lo determina, e gli dà un magnetismo disorientante, è la sua compiutezza, senza sviluppo, come senza storia.” Ed è anche, secondo un’interpretazione che trovo straordinaria, sottilmente e futilmente luciferico : “demoniaca la coscienza di un potere, di una signoria instaurata con niente, secondo la legge che il bello attira a sé, nelle sue vacue profondità. La scena in cui Remo si manifesta la prima volta è carica di segni inquietanti. La madre muore e Remo si materializza, creatura della morte che si affaccia alla vita con uno sguardo freddamente vorace quanto indecifrabile. Alle sorelle sembra caduto dal cielo a gettare, questo lo avvertono subito nel loro animo e nel loro corpo, scompiglio e disunione. Remo istiga alla disunione, per imperare a suo modo. E anche in questo è diabolico, poiché si mette di mezzo, di traverso fra le anime” . L’ars amandi di questo seduttore passivo, di questo algido satiro sicuramente più concupito che concupiscente, è, per così dire, pornografica : “Il modo di baciare di Remo allude a un erotismo studiato, frigido, professionale, di organi erogati alla bisogna, senza coinvolgimento dell’erogante, e la bocca viene elargita a tempo, “quasi avesse dato un oggetto da baciare e non una parte di sé ”. La freddezza davanti alle smanie è il connotato apollineo di questo amante senza amore, di questa puttana declinata al maschile. Il suo corpo è immutabile come la sua anima, magnifico e inerte” . Questi “frammenti di un discorso amoroso”, mi pare costituiscano un mosaico, uno spartito critico originale ed unitario, che perfettamente si accorda, esaltandola, alla leggerezza profonda, alla ludica e tuttavia complessa fascinazione del romanzo palazzeschiano.

“L’inventario delle carte messaggere della vita”, l’anatomia paziente di epistolari e carteggi , mette a fuoco un arco ragguardevolissimo di tempo, dai primi del secolo al 1974, nell’imminenza della morte, ma non sempre il corpus di missive si rivela specchio incontaminato e fedele dell’esistenza, diagramma irreprensibile di veridicità. Palazzeschi ha inteso farne un’opera, da consegnare ai posteri in una dimensione significante e congrua. Ed infatti i volumi epistolari molto dicono dello scrittore, anche se “la sua verità e la sua essenza sono altrove” .
Risaltano la diseguale corrispondenza col devoto amico romagnolo Marino Moretti, che bussa “alla porta del cuore di Aldo”, per chiedergli “due centesimi di fraternità”; quella strategico-politica col gran capo futurista Marinetti, “entità sovraindividuale… marciante collettivo in sagoma umana” , al cui carro di Tespi iperdinamico e fagocitante Palazzeschi resta, temporaneamente e da primissima donna, aggiogato; quella con Prezzolini, nella sua ultima fase scettica, disincantata e saggia, da superstiti, inveterati amici, da capitani di lungo corso ormai giunti attraverso le rotte, del pensiero, dell’arte, della vita, a un qualche porto, anche oscuro, freddo, di quiete, o magari di nuova, vitale inquietudine.

Abitare la battaglia. Lo stile belva di Domenico Giuliotti inaugura la seconda sezione del volume intitolata Cultura e poesia, scolpendo un altorilievo insieme fiammeggiante ed equanime dello scrittore. Fiammeggiante, come richiesto dallo “stile belva” di Giuliotti, ed equanime, perché dà il giusto risalto a una figura troppo, anche se piuttosto logicamente, obliterata. Apologeta armato del cattolicesimo reazionario, inesausto oltraggiatore dei lumi, fratello spirituale di Leon Bloy, non poteva non essere tradotto nelle segrete storiografiche del Novecento, quasi all’unanimità bandito, politicamente, prima che criticamente, ostracizzato. Ma il suo stile, pur tra fatali cadute di tono, è di quelli che non si scordano; inquisitorio, belluino, patibolare, agonico, libidinoso di “profanare il profano” . Di questi tempi, in cui la trasgressione è divenuta insopportabile maniera, bieco conformismo, bassissima strategia di marketing, leggere Giuliotti è davvero trasgressivo. L’ora di Barabba, Pensieri di un malpensante, Tizzi e fiamme, non si possono tenere in mano senza avvertire come un fremito di colpevolezza, nonché un certo timore di essere scoperti e denunciati alla pubblica autorità, progressista, laica e liberale. Il suo furore iconoclasta elegge a bersaglio un po’ tutte le sacre effigi della modernità, vilipendia la soltanto umana immagine dell’uomo, ma nell’incendio che appicca non teme di rimanere lui stesso bruciato, solo. Biondi gli riconosce qualcosa di “grandiosamente tragico”, un’assoluta verticalità dell’esistenza, della scrittura e del pensiero, che, in qualche modo, lo legittima, ne giustifica l’inflessibile rigore. Di certo Giuliotti non dissimula, bensì rende iperbolico, tonitruante il suo odio per il mondo. Ai nostri occhi la sua figura, la sua opera, non possono non apparire eccentriche, lontane, eppure, le corde dell’animo che tocca, i fini ultimi che persegue, le verità che iratamente cerca e adora, ci riguardano, nel modo più assoluto. E riguarderanno sempre tutti.

Una città di maghi, una capitale del mistero, l’elettivo domicilio di inquilini stravaganti, di bizzarri sensali dell’occulto; Firenze primonovecentesca è stata anche questo. Ce ne parla, in un libro del 1929, Spaccio dei maghi, godibilissimo ed acuto, Mario Manlio Rossi – in qualità di testimone oculare e di iniziato apostata – da cui Biondi prende le mosse per tracciare un diagramma brillante, equilibrato e non pregiudizialmente scettico delle succitate fenomenologie e sindromi esoterico-spiritistiche . In un milieu antipositivista attecchiva un positivismo del soprannaturale. Certo, accanto ai devoti integerrimi dell’oltre, speculavano, nell’accezione deteriore del termine, e locupletavano vari imbonitori della mente, imperversavano ciarlatani patentati. Però, appunto, “non tutti questi incredibili rimedi alla curiosità e voglia di guardare l’invisibile erano da considerarsi dei volgari dulcamara. La metafisica non è il trucco dell’anima ma il suo anelito più segreto e insaziato” . Alcune figure si stagliavano, come il mago pitagorico Arturo Reghini, custode ispirato di una sapienza arcana, atavica ed elitaria, personaggio notevole, complesso, di cui, per fortuna, almeno Elémire Zolla si ricorda nel suo bellissimo libro Uscite dal mondo, o Roberto Greco Assagioli, redattore dal 1912 al 1915 della rivista “Psiche” – incunabolo delle pubblicazioni sul profondo – esimio studioso e padre nobile della psicosintesi, che alla psicanalisi nella sua stessa formulazione linguistica si contrappone, e che, forse, ha pagato l’imperdonabile colpa di una preponderante attitudine spirituale, di una troppo alta idea dell’uomo e della vita, di fatto scomparendo. Sorte terrena, che lungi dal testimoniare necessariamente contro, potrebbe persino deporre a suo favore, se è vero, come afferma Kraus, che “la più forte prova contro una teoria è la sua applicabilità”.

Arrigo Levasti ha soprattutto svolto un importante ruolo testimoniale, mantenendo accesa e ravvivando la fiamma della speculazione mistica, a Firenze e da Firenze, per più di mezzo secolo, fino al 1973, anno della sua scomparsa . Una ragion laica troppe volte asfittica, blindata e non disposta a riconoscere, pascalianamente, che infinite cose la superano, l’aveva relegato in un limbo da cui era doveroso farlo uscire, per rendergli giustizia, anche mondana. A ciascuno la propria Weltanschauung, ma negare che lo spiritualismo, il misticismo abbiano una loro precisa, ineludibile e direi fondante valenza antropologica e culturale è oscurantismo, con il cui paradossale tramite si pretenderebbe – ma forse, soprattutto in passato, si è preteso – di dissipare le tenebre dell’ignoranza e della superstizione. Biondi comunque formula anche un’ipotesi storico-politica che esorbita dal contesto in cui Levasti si è formato, per affondare le radici in tempi lontani: “Se ci interrogassimo, a questo punto, sulle ragioni per cui nel pensiero italiano classico, da Machiavelli all’idealismo novecentesco, religione filosofica e laica, sia bandito il trascendente come oggetto di speculazione, forse bisognerebbe risalire alle circostanze di formazione del ceto intellettuale nell’Umanesimo, che si è attuata contro la Chiesa e il suo temporalismo” . Ma la Chiesa non è lo spirito, semmai il suo momento istituzionale, e l’anima non può essere ingabbiata, razionalizzata, deprivata di un orizzonte metafisico, di un Tu divino. Uomini come Levasti sono vissuti ed hanno lavorato, scritto – magari lontano dal clamore e dalle grazie di sua maestà il mondo presente – per ricordarcelo, per dichiararlo a chiare lettere, con loro stessi e con la propria opera.

“Nei mari estremi”, nelle terre del classico, dove vita, morte, dolore, fede, speranza, tempo, eternità sono scaturigini e specchi della poesia, di quella vera, Biondi colloca Alessandro Parronchi, “artista grande e solitario”, che ha attraversato il Novecento fino alle soglie di un’epoca nuova, difficilmente interpretabile e, se non malata, afflitta da tanta “scienza inutile”, come testimone discreto e silenzioso, come figura di riferimento nobile, aristocratica, ricca di sapienza e memoria . Il poemetto Paura di vivere, in duecentocinquanta endecasillabi dal timbro chiaro e colloquiale, terso, sembra rappresentare, emblematicamente evocare l’intero discorso poetico di Parronchi; è un sogno, una visione sommessa e trepidante, un curriculum vitae segnato dalla perdita, dal lutto, ma anche innervato, reso autentico e prezioso dalla linfa prodigiosa dell’arte, della bellezza, della verità. Classici sono questi versi, questa pura poesia nella sua forza luminosa e semplice, bacino lustrale d’alta quota in cui la sofferenza si riflette e trova, o vagheggia, un’umana e cristiana redenzione. Nella spesso indecifrabile ed autoreferenziale e muta nebulosa lirica di questi anni, dove i poeti sono migliaia, le poetiche deteriormente esoteriche o inesistenti, le parole irrelate schegge, monadi superfetate in libertà – l’opzione poetica stessa, talvolta, si direbbe, una scorciatoia per evitare i più impervi sentieri e le fatiche della dura prosa – l’intera opera in versi di Parronchi, e questo poema esemplarmente, può assurgere, davvero, a paradigma di stile e di onestà.

Desidero concludere affermando che quanto ho scritto implica e richiede come un decisivo suggello, esige, per dir così, una sorta di corollario, esprimibile attraverso questa – nell’economia stessa del mio saggio – non marginale asserzione: Firenze Novecento è il libro di un accademico, ma anche e forse soprattutto di un critico-scrittore, specie rara e a rischio d’estinzione, che una legge appositamente varata dovrebbe ormai tutelare. Senza disperdere una sola oncia della sua palese e primaziale caratura critica, senza tradire il suo genio, senza divergere dal suo originario percorso, Biondi accende la propria scrittura di una quidditas creativa, fa lievitare la sua prosa, e gli scrittori, i poeti, gli uomini, le cose che passano al suo vaglio respirano, ci parlano.
Riecheggiando Leon Bloy, plurievocato nume tutelare di Giuliotti nel saggio Abitare la battaglia, è forse necessario che lo stile, anche critico, risplenda.

Marco Massimiliano Lenzi
Forme dell’invisibile
(recensione)

Marco Massimiliano Lenzi, poeta e saggista di non comune levatura e integrità, tende, con questo libro (fratello de Il segreto richiamo. Figura, funzione e simulacro del maestro spirituale, Il cerchio, Rimini, 2003) a lumeggiare un orizzonte in parte obliato nell’ambito della cultura contemporanea ma per sua stessa natura inestinguibile e inconcusso, nonché onnipervadente: quello del sacro. Forme dell’invisibile ha il fascino delle cose eterne, dei segreti che ci custodiscono e ci salvano, delle strade che sappiamo da sempre ma che avevamo dimenticato. Addita percorsi nella notte senza essere una apologia acritica del sacro, un dogmatico preconio dell’invisibile. Senza essere un libro per iniziati. Siamo al cospetto di un saggio di assoluto rigore – basta scorrere la notabile bibliografia che costituisce di fatto l’ultima sezione del volume, dopo la premessa e i tre capitoli – ma che brucia di una potente fiamma. In tutte le cose, ma in quelle dello spirito peculiarmente, la frigidità non paga, lo sguardo asettico, da laboratorio, è uno sguardo cieco. Come si diventa quello che si è, si conosce davvero solo quello che in qualche modo si vive, ciò si esperisce, e che più profondamente si ama. Un poeta comprende un altro poeta molto meglio di un professore di letteratura (che spesso non lo comprende affatto) e addirittura di un critico, anche bravo. Un assassino capisce un suo collega certamente più di un criminologo, che non ha mai brandito un pugnale o maneggiato una pistola in vita sua. Mi sia concessa anche quest’ultima similitudine, che suona intenzionalmente forte, per rendere più nitida l’idea. Se uno non ritiene che l’invisibile ci sia che lo studia a fare? Perché ne parla, perché pontifica? Intraprenderebbe la sua ricerca sotto un profilo esclusivamente storico e antropologico, ma che deserto, che terra desolata di eliotiana memoria, che ostruente mancanza di respiro e di bellezza ne verrebbe fuori. L’incipit del libro (non del primo capitolo ma della premessa) è verticale ed eloquente: “Il presupposto sotteso a questo studio monografico è che termini quali Invisibile, Sacro possano ancora risuonare, per l’uomo contemporaneo, in tutta la loro interlocutoria potenza. Le tematiche qui affrontate si collocano in un contesto che, a nostro avviso, costituisce il limite estremo dell’umana ricerca, il suo vertice, e che come tale richiede l’attivarsi di tutte le facoltà dell’individuo inteso nella propria integrità: l’esperienza del Mistero”.
Una plausibile definizione di esoterismo costituisce la prima parte di questo libro, che esalta il valore primaziale dell’esperienza di contro ad ogni approccio puramente intellettualistico. “La chiave d’accesso alle potenzialità rivelatrici del simbolo non consiste tanto nell’applicarvi un pur valido paradigma logico-discorsivo, bensì nell’interiorizzazione stessa del simbolo, nella percezione intuitiva delle sue implicazioni, il che rimanda ancora una volta all’intima, diretta esperienza del soggetto”. L’etimologia stessa del termine esoterico, dal greco esoterikos, interno, contribuisce a statuire una sorta di profana inaccessibilità dello spazio sacro. Ancora una volta mi si permetta di evidenziare, a puro titolo esemplificativo, come possa intercorrere una similarità tra poesia ed esoterismo: si capiscono – ma forse non è il termine più adatto, poiché non ve n’è uno assolutamemente adatto – entrambi meglio dall’interno che dall’esterno, o solo dall’interno. Secondo l’autore occorre evidenziare l’incolmabile scarto che separa chi “autenticamente, è ed opera all’interno di un versante spirituale contraddistinto da modalità iniziatico-sapienziali e chi ad esso si rivolge, a vario titolo, dall’esterno”.
René Guénon, non dogmaticamente ma criticamente accolto, rappresenta un paradigma di riferimento ineludibile per l’opera di Lenzi. Il concetto non umano di Tradizione, pietra angolare del pensiero dell’esoterista francese, da cui ogni tradizione sarebbe derivata, connette le religioni al loro principio metafisico. Il tramite è l’esoterismo che persegue l’autentica liberazione, il “raggiungimento dello stato supremo ed incondizionato”, mentre la religione cercando la semplice salvezza non consente di esulare dai limiti dell’individualità umana.
In Mistici e iniziati, secondo capitolo del libro di Lenzi, la svalutazione guenoniana della mistica rispetto all’esoterismo e alle vie iniziatico-sapienziali, è passata ad un attento vaglio critico, pur non essendo disconosciuta, giustamente, la fulgida grandezza di Guénon, da cui risulta impossibile non prendere le mosse. Anche il pensiero di altri grandi quali Titus Burckhardt, Frithjof Schuon e Julius Evola è qui chiamato in causa. Scrive l’autore: “L’esperienza mistica (e non un misticismo di stampo individualistico-sentimentale) non può essere considerata extrainiziatica né quindi circoscritta nel dominio exoterico. Ancora di più: non vi può non essere un punto in cui le due prospettive, della Conoscenza e dell’Amore, si uniscono. Giunti ad un determinato livello, se si abbandona lo specchio deformante di un atteggiamento pregiudiziale, non si potrà più parlare di un’esperienzialità qualificabile come mistica o esoterica, ma semplicemente di esperienza spirituale e basta”. Mirabilmente suffraga questa idea di una sorta di identità nel supremo e di perfezione non più passibile di distinguo una vertiginosa teoria di mistici sublimi, anche solo circoscrivendo il discorso alla tradizione occidentale, (che Lenzi enuclea, e a cui se ne potrebbero aggiungere naturalmente altri) da Dionigi Aeropagita a Meister Eckhart, da Enrico Suso a Giovanni Taulero, dall’anonimo autore medievale della Nube della non conoscenza, a Niccolò Cusano, da Giovanni della Croce ad Angelo Silesio.
Accanto all’ homo sapiens e all’ homo faber, incontrastati dominatori della nostra epoca, con tutto il suo cristallino potere si erge, oltre ogni possibile occultamento nelle segrete della storia, l’ homo religiosus, nonché l’ homo symbolicus, a cui il terzo capitolo dell’opera di Lenzi è dedicato. Il simbolo è l’anello di congiunzione tra l’invisibile e il visibile, il medium attraverso il quale la trascendenza si rivela: “È lungo la traiettoria stabilita dal simbolo che l’uomo ha potuto coniugare il nucleo più profondo del proprio essere con la terrifica potenza immanente dell’Invisibile e con la realtà fenomenica che lo circonda dando un ordine e un senso alla propria dimensione esistenziale, in cui la consapevolezza della morte e del post mortem occupa la posizione chiave”.
I simboli non muoiono, ma possono essere edulcorati, sviliti fino al disgusto; in fedele accordo con i tempi. Basti pensare a che ne è dell’altissimo simbolismo del cuore, “ricettacolo del divino”, “dell’autentico sé”: materia per oroscopi della domenica, per luoghi comuni dei più triti e tramortenti.
A Pavel Florenskij, e al suo aureo saggio Le porte regali, l’autore affida l’ultima parola del proprio libro: “Ci sembra perciò quasi necessario concludere queste pagine con un sillogismo che Florenskij formula riferendosi all’icona forse più famosa e rappresentativa: la Trinità di Andrei Rublev e nel quale ci pare come rappresa la migliore definizione di simbolo e, insieme, lo svelamento della sua ineffabile essenza: “Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è” .”
Noi desideriamo aggiungere: esistono uomini – come Lenzi – sulle tracce del sacro, quindi il sacro è. E poiché è, ci sono uomini sulle sue tracce, e ci saranno sempre. Naturalmente i migliori.

La sciarpa
(un’antistoria vera)

a Roberto B. e alla serate di tutti noi

Nel giro di un nanosecondo le situazioni più idilliache possono evolvere in catastrofe. Io, per esempio, mi trovavo a cena con amici, si discuteva, di poesia e di varia umanità, si rideva, si stava bene insieme, ma davvero, non come i caimani che il sabato sera affollano i locali semplicemente facendosi caldo a vicenda, ruttando fuori la loro scomposta, per non dire oscena voglia di vita.
La serata poi prosegue altrove. Ad un tratto, in un attimo divenuto eone, realizzo di non avere più con me la mia sciarpa, bella, soffice, grande, un regalo, un passaporto per il mondo. L’ho perduta, sono nudo, nessuno mi aiuta, anzi tutti, per le strade, nelle bettole, ovunque, fanno come se niente fosse. L’amico Bartok, come gli amici di Giobbe, filosofeggia, discetta a vanvera di kenosis e spoliazione mistica, ma sono io, come Giobbe, a rivoltarmi nel dolore. Sentenzia che un simile contegno nella sorte avversa non mi fa onore. Parla e straparla da fariseo, da uomo ben pasciuto e intatto nelle viscere, con la testa sul collo, e soprattutto con qualcosa intorno al collo. Dice che vuole al suo fianco compagni in grado di dar fuoco all’universo, fratelli che nessun lutto possa mai scalfire. Ma io darei fuoco all’universo, e anche di più, se solo avessi la mia sciarpa. Torno sui miei passi, ma “Il beccafico”, questo il nome del popolare ristorante dove eravamo stati a cena, è chiuso. L’indomani è giorno di riposo e così io trascorro la domenica come Lazzaro nella tomba. Il lunedì mattina irrompo al “beccafico”, mentre serve butirrose con il pretesto di fare le faccende sporcano dappertutto. Il padrone, un tipo niente male, quasi più raffinato di Vissani, il celebre cuoco, è curvo su di un tavolo, impegnato a fare somme e sottrazioni, con quella scarsa scienza matematica appresa alla bisogna, e cioè quanto basta per arricchirsi e andare all’inferno. Non un matematico puro insomma. Piuttosto stranamente, prima ancora che io apra bocca, nega di aver visto sciarpe. Cosa posso fare io? Non ho con me un mandato di perquisizione, non ho soldi per oliare e quindi far cantare le serve butirrose, i testimoni erano tutti ubriachi – se non loro stessi autori del furto, ma mi rifiuto di pensarlo perché sarebbe una supposizione drammatica, ed io, abbastanza evidentemente, non sono affatto portato a drammatizzare -, non sono uno scaltro leguleio come l’ormai ex amico Bartok, e soprattutto non ho una sciarpa. Forse qualche psicologo da balera sosterrebbe che una simile premura – lui userebbe il dispregiativo termine ossessione – per la sciarpa nasconde ben altre carenze, probabilmente di natura affettiva. Io direi piuttosto il contrario, sono le mie presunte carenze affettive a dissimulare il ben più autentico e fondante bisogno di una sciarpa. Carenza di sciarpa, ecco qual’è il problema. Me ne vado da quella spelonca di ladri urlando – altro che “beccafico”, beccatutto si dovrebbe chiamare questo posto, degni concittadini di Vanni Fucci che non siete altro! -. Mi resta soltanto la sorella, la trentasettenne sorella, la buona, la fedele, la felicemente coniugata, l’ignota costruttrice del regno dei cieli, la compassionevole, la comprensiva, l’ultima speranza. Le chiedo di recarsi al “beccafico”, senza dare troppo nell’occhio, a pranzo e a cena, ogni giorno, per un mese. Non sia mai che a prone sguattere o ad unti cucinieri, o chissà, ad avventori bruttamente collusi e piorroici, scappi detta una parola… La sorella, la perfida, l’inumana, l’artefice pur sangue del mio sangue della civitas diaboli, trova la cosa poco economica. Capisco che è finita, che non avrei mai più ritrovato la mia sciarpa.
Così è andata, ma pensandola, continuando sempre a pensarla, l’ho salvata e mi sono salvato. Mi sono salvato dalla follia, sostituendo alla restante vita che ormai mi stava di fronte inerte come una palude e gelida come la morte, l’idea fissa, l’inamovibile cura della sciarpa assente, che ogni altro pensiero ha discacciato, ogni altro tranne questo, rivolto ai malfattori del “beccafico” – che ne possiate rubare altre mille di sciarpe, ma intrise di carbonchio! -. Ora, l’uomo che ero prima è morto, è morto al mondo. Ora sono nel martirologio, porto il nome di San Piero Desciarpato.

Lettera al padre

Un artista che ha successo non deve disperarsi. Deve cominciare a dubitare di sé soltanto nel caso che una canaglia faccia fiasco.
Karl Kraus

Sono nato sotto la tua stella padre, una stella errante, fulgida e pietosa. Da sempre sono stato tra il tenero strazio della terra e l’implacabile vertigine del cielo. Dentro le tue vesti, nei tuoi cieli, nei tuoi fuochi, nei tuoi angeli, nelle tue tempeste, nei tuoi perfetti enigmi, nei tuoi oggetti sfolgoranti e magici, nelle tue metafisiche radure, nelle tue visioni, nelle tue figure rapite dalla luce, mi sono specchiato. So di quando tu accendesti un fuoco, nel cuore della notte. Insieme l’abbiamo custodito. Con quanta minor fatica avresti potuto vivere la vita invece di fare dell’arte. Ma forse l’arte è l’unica vita possibile, la sola vera vita, sempre che non si riesca ad essere santi. C’è chi domina, chi lucra, chi uccide, chi ama, chi edifica, chi sogna, chi, e sono i più, semplicemente vegeta. Tu crei, ed è una cosa maestosa, maestosa e terribile. La bellezza, diceva Yeats, nasce terribilmente. Tu dal nulla trai una forma, al nulla dai una forma. Ma questo tremendo dono, questo inconcepibile frutto non è concesso agli uomini che a prezzo della vita. Adesso sai che tutto era scritto, il piccolo paese, l’abbandono, il male, il respiro frantumato, tutto doveva misteriosamente accadere, tutto doveva essere esattamente così, perché qualcosa di grande avvenisse.
Come sai però di non essere davvero solo, l’oltreuomo, l’artefice unico del tuo destino, come senti, arcanamente senti di essere il tramite, lo strumento di più alte forze, di potenze che ti trascendono, che esigono la tua assoluta fedeltà. Senti di essere il violino, splendidamente accordato, in attesa di una musica che viene da altrove… Da qui la tua umiltà, l’umiltà profonda dell’artista, che non consiste certo nel fare comunella con cantanti e ballerini, che non esclude affatto un sacrosanto, smisurato orgoglio. Da qui anche la paura, la vergogna a volte, la disperazione, il timore di non essere all’altezza, di non poter rispondere a un così formidabile appello, la tentazione di nascondersi, tra gli altri, in mezzo al mondo… Scusami, mi rendo conto di dirti cose ovvie. Ma ovvie per te, non per i miliardi di sonnambuli spermatici, né per i milioni di acculturati a tempo perso, per i quasi intellettuali, per i poco meno che analfabeti, e neppure per i più sofisticati babbei, per i frigidi rotariani del pensiero, che dell’arte, di questa cosa unica, semplice e grandiosa, non sanno niente, o sanno soltanto di esserne stati respinti, e allora si vendicano parlando, e parlando uccidono lo spirito, delitto per cui tu a tua volta vorresti equanimemente ucciderli. Non farlo, non sprecare energie, pazienta ancora un po’, giusto fino alla fine del tempo. Del resto anche loro devono vivere, pur essendo difficile spesso comprenderne il motivo. Non dimenticare poi che per ogni anima morta c’è, e ci sarà sempre, un puro di cuore, uno dallo sguardo limpido, uno che fraterno ti tende la sua mano, che riconosce il prodigio, che si sa parte di un tutto, come te, disperso fiato di un cosmico respiro, scintilla abbandonata di quel supremo rogo, di quell’ “amor che move il sole e l’altre stelle”.
Ma la tua mano padre, la mano che crea non può afferrare, non può possedere le cose. E forse, spero e temo, neanche la mia. No, non posso dire quest’amico, questo mestiere, questa donna sono miei, anche se tutto, in un altro, ed alto senso, mi appartiene. Come il mendicante di kafka anch’io padre stringo la fisarmonica contro lo scarno petto; la fisarmonica che tu e il cielo mi avete regalato. Con voce pura e fronte disadorna chiedo al mondo un briciolo di pane.